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Se solo il dieci per cento di quello che viene proposto dalle informazioni provenienti da Gaza risulterà vero, siamo molto nei guai. Dopo l’orrore, il disgusto, la rabbia e l’impropero lanciato verso i responsabili di un altro genocidio, Netanyahu e la sua banda di governo, e tutti coloro che lo hanno e continuano ad appoggiarlo, Stati Uniti in testa, è cominciato, forse ancora con ritardo, il tempo della comprensione. Un tempo dell’analisi e della riflessione che non esime però dal riconoscere la responsabilità e chiedere giustizia. Chiunque abbia contribuito a tanto dolore ne dovrà rispondere.
Siamo nei guai noi, con il dovuto rispetto per le drammatiche condizioni in cui versano le vittime di questa immane tragedia, che apparteniamo a quella parte del mondo che si è autoproclamata responsabile moralmente e militarmente dell’ordine mondiale. Siamo colti dalla sciagura noi che abbiamo per tanto tempo fatto finta di non vedere, o comunque non intervenire, prima a soccorrere i palestinesi e poi a disarmare gli israeliani. Questo per un rispetto folle e codardo ad un assunto che riguarda l’impunità sempre garantita agli americani e ai loro fedeli accoliti.
Da questa crisi non si esce senza un esame radicale della nostra condizione umana, delle modalità con cui la violenza si sviluppa laddove i valori umani più nobili, la libertà, la giustizia, la responsabilità, vengono erosi dall’alienazione, dal valore del sé su base economica e dalla disuguaglianza. La responsabilità e l’imparzialità non sono peculiarità naturali intrinseche all’essere umano. Al contrario, esse si sviluppano e si consolidano come qualità umane superiori solo in quelle società che realizzano condizioni di libertà reale, di uguaglianza e di partecipazione autentica. Quando l’uomo è alienato, ridotto a ingranaggio di un sistema disumanizzante, perde la capacità di assumersi responsabilità e di percepire il valore dell’altro come un essere umano.
Le società che si strutturano su rapporti di forza, di ingiustizia e di negazione della libertà individuale, favoriscono l’emergere di pulsioni distruttive. Si cade qui nella “necrofilia” frommiana, l’orientamento alla morte e al dominio tipico delle organizzazioni sociali fasciste e autoritarie che si contrappone alla “biofilia”, amore per la vita. Quando la società reprime la spontaneità, la creatività, la solidarietà, l’individuo si spegne, e al suo posto emergono paure, odio e violenza. I gruppi sociali si costituiscono secondo dinamiche di potere che tendono a imporsi attraverso la propaganda, il conformismo e la manipolazione delle coscienze. In assenza di una reale libertà, le masse sono più vulnerabili alla fascinazione per figure autoritarie che promettono sicurezza e senso di appartenenza fittizio. Il potere si arroga così il diritto di definire la realtà, di giustificare la violenza come necessaria difesa, consolidando un racconto che legittima distruzione e oppressione.
Nel caso israeliano, questa dinamica appare evidente nell’uso delle propagande che dipingono la violenza come autodifesa assoluta, annullando l’umanità dell’altro, negando i suoi diritti e le sue sofferenze. C’è anche da considerare l’eredità della Shoah, probabilmente non completamente elaborata, che ha creato vissuti di eterna persecuzione e di giustificazione del comportamento violento e oppressivo sentito come necessario per la propria sopravvivenza. A questo non ha certo giovato l’adesione avvenuta dopo la seconda guerra mondiale ai deliri del sionismo politico, addensando le responsabilità della tragedia creata dal nazismo in un pericoloso teorema nazionalistico e religioso che ha spinto la creazione dello stato di Israele. Si è creato il mostro, con un altro colpo di “genio” anglosassone, e adesso, anzi da oltre 70 anni, questi sono i risultati che si potevano attendere.
Quindi stiamo attenti quando nell’immaginare una possibile soluzione alla situazione mediorientale utilizziamo formule semplicistiche se pur con parvenza di imparzialità ed equilibrio, come “due popoli e due stati”, con la possibilità di creare altri pericolosi rigurgiti nazionalistici. Cosa definisce un popolo? La storia, il presente, la tragedia vissuta, l’immaginario epico o religioso? O forse bisogna mettere in conto anche la possibilità di immaginare un futuro diverso dalle incrostazioni temporali, dai risentimenti e dalle vendette, per la costruzione di una comunità unita non solo dal legittimo dolore. Rischiando di ricorrere ad un’altra semplicistica formuletta, forse dovremmo spingere verso la condivisione in luogo della divisione. Per questo si potrebbe immaginare uno stato su base territoriale, democratico, plurietnico, laico e con il disconoscimento costituzionale di ogni velleità nazionalistica, di ogni suprematismo e soprattutto indipendente da ogni influenza esterna.
Condizionamento come quello esercitato fin dall’inizio da parte degli Stati Uniti, che in cambio di protezione militare ed economica, ha fatto di Israele uno strumento di controllo e gestione dei propri interessi nell’area mediorientale. Per realizzare il nuovo assetto dei territori oggi contesi da israeliani e palestinesi ci vorrebbe però necessariamente la presa di posizione delle istanze più evolute delle due comunità, anche sostenute da supporti internazionali di carattere politico, sociale e psicologico, indipendenti da ogni interesse esterno. Questo per la creazione di un’assemblea costituente che rappresenti le diverse realtà etniche, che con spirito laico e democratico, s’impegni a dare termine ad ogni ostilità, di elaborare il lutto di tante atrocità, di mettere sullo scranno degli imputati ogni responsabilità in ordine a crimini contro l’umanità. Ed infine, per creare un progetto evolutivo per una nazione comune che sia fondata sul futuro di una convivenza pacifica, nutrita sia dal dolore del passato che dalla forza che l’elaborazione di questo può generare.
La tragedia che si consuma sotto i nostri occhi non è soltanto il frutto della crudeltà di alcuni individui o di un governo che si è reso strumento di annientamento, ma è anche il risultato di un lento processo di disumanizzazione che si è diffuso in modo capillare all’interno delle società contemporanee. Non basta guardare a Gaza per comprendere il dramma. Gaza è lo specchio, l’ultima e più brutale rappresentazione di un cammino che l’umanità ha intrapreso da tempo, scegliendo di sacrificare la dignità e la giustizia sull’altare del potere economico. Siamo ormai da molti anni entrati nell’era dell’homo consumens che secondo Fromm definisce il prodotto evolutivo umano avido di merce da consumare, passivo e incapace di responsabilità, generato dal furore capitalista del profitto ad ogni costo.
La perdita del significato dei valori tipicamente umani nasce quando l’uomo, invece di vivere in relazione autentica con l’altro, si riduce a funzione, a ingranaggio di un sistema che lo vuole obbediente, spersonalizzato, adattato. Il potere politico e quello economico hanno compreso da tempo che la vera forma di dominio non è più quella che si esercita con la forza diretta, ma quella che nasce dalla capacità di orientare i desideri, di produrre consenso, di spegnere la coscienza critica. È un meccanismo che diventa tanto più efficace quanto più le condizioni di alienazione e di paura si diffondono nelle comunità.
C’è anche da tener conto di come a causa delle caratteristiche del nostro sistema psichico siamo sempre indotti a giustificare e a valutare positivamente i nostri legami e dipendenze, svalutando ineluttabilmente quelli altrui. Questo naturale processo può essere modificato solo attraverso l’acquisizione di una profonda libertà interiore. La responsabilità collettiva non nasce quindi dall’astratta adesione a un principio morale, ma dal grado di libertà interiore che le persone riescono a difendere contro la pressione del conformismo e della paura. Una comunità che perde il senso della propria libertà, che accetta passivamente di delegare ogni scelta al potere, è già prigioniera di una logica di obbedienza che la prepara a diventare complice. In questo senso, ciò che accade a Gaza ci riguarda come esseri umani immersi in una società che ha smarrito il senso della compassione e della responsabilità.
La violenza, quando diventa sistema, non nasce solo dal potere di chi la esercita, ma anche dall’indifferenza di chi la tollera. Ed è proprio l’indifferenza che rappresenta oggi il pericolo più grande. Non è soltanto la crudeltà dei carnefici a uccidere, ma anche la distrazione dei testimoni, la paura dei complici silenziosi, la rassegnazione di chi si convince che nulla possa essere fatto. Il modello occidentale, che si è presentato per decenni come il custode della libertà e dei diritti, rivela ora il proprio volto contraddittorio. Da un lato proclama valori universali, dall’altro si arroga il diritto di decidere quando e a chi applicarli. Esistono vittime degne di memoria e vittime che devono restare anonime secondo un doppio standard che non è una semplice incoerenza, ma un metodo per esercitare il potere. Esistono popoli la cui resistenza è celebrata come eroica, ed altri per i quali la stessa resistenza viene bollata come terrorismo.
Eppure, l’uomo conserva in sé una possibilità diversa. Nonostante la forza della propaganda e la pressione del conformismo, vi è sempre la capacità di resistere, di scegliere, di dire no. Questa capacità non si manifesta in maniera automatica, ma richiede il coraggio di affrontare la solitudine, di mettere in discussione il linguaggio ufficiale, di capire se stessi e il proprio condizionamento subito, di guardare il dolore altrui come se fosse il proprio. Per questo che iniziative come quella della Flotilla per Gaza, che con la sua missione di aiuto al popolo palestinese, ma soprattutto etica e di presa di responsabilità, in parte assolvono anche le nostre anime colpevoli di cali di partecipazione empatica e di crescita d’indifferenza. È una scelta difficile, perché porta con sé la frattura rispetto alla comunità di appartenenza, ma è l’unica via per ridare senso alle parole giustizia, pace e responsabilità, e così continuare ad essere umani.
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