DEMOCRASCISMO

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Il democrascismo, sgradevole ossimorico neologismo, ci serve qui per descrivere e analizzare un’insidiosa metamorfosi della democrazia, sempre meno partecipativa e sempre più asservita ai potentati economici. Un tempo la democrazia era la piazza, il dibattito, la sovranità popolare. Oggi è sempre più un palcoscenico dove pochi attori recitano un copione scritto da altri. Il democrascismo è una dittatura leggera, dove il dissenso è tollerato finché non disturba i manovratori. È il trionfo dell’immagine sulla sostanza, del marketing sulla politica, dell’interesse privato sul bene comune.

Il tentativo adesso è quello di capire cosa c’è di diverso oggi in una democrazia come la nostra, figlia della lotta antifascista iniziata nelle trincee dei partigiani e proseguita con la nascita della Costituzione che di quel nettare antiautoritario si è nutrita. Condizioni come quella del sempre più mancato impegno elettorale da parte dei cittadini, la crescita del consenso ottenuto da formazioni politiche della destra neofascista, mettono in dubbio la salute della nostra società democratica. Può una comunità scegliere liberamente, e senza esprimere alcun sintomo di disagio, una forma di governo dispotica e illiberale, che, come da origine, s’impegna per favorire gli interessi dei più ricchi?

La risposta ovviamente dipende dalla cultura di chi replica: positiva per i reazionari e negativa per i nostalgici della democrazia. Allora, noi che apparteniamo alla seconda  specie, cercheremo di capire, sicuramente parzialmente e  con tanti errori d’interpretazione, quali sono state le cause di questa situazione e se c’è ancora qualche possibilità di porvi rimedio. Io partirei dalla semplice considerazione che la democrazia, come altre condizioni sociali e individuali che tentano di apportare modifiche alla semplice reazione istintuale, non è gratuita. Per risolvere problemi complessi di gestione della sofferenza, dell’equa ripartizione delle risorse, e quindi della pace sociale e dell’evoluzione della specie in armonia con l’ambiente e con lo sviluppo delle migliori qualità umane, occorre impegno e crescita individuale e collettiva. 

Poi metterei tra gli ingredienti per l’analisi sul disagio espresso dalla sempre più forte spinta antidemocratica le condizioni psicosociali tipicamente umane. Tra queste possiamo considerare il bisogno di sicurezza materiale che in mancanza, reale o immaginaria, di risorse, crea reazioni autoprotettive anche violente. Queste possono sfociare istintivamente in aggressione a un nemico, spesso creato artificiosamente, per risolvere la  tensione accumulata. Infatti una delle caratteristiche dei fascismi è quella di creare nemici, di solito individuati tra i meno favoriti socialmente ed economicamente. A loro spetta il fardello delle colpe di tutte le nefandezze in realtà generate dalle avidità e dalla brama di potere dei più opulenti sponsorizzatori delle destre più o meno estreme. Non dobbiamo infatti dimenticare che il danno sociale maggiore apportato dalle politiche conservatrici è la messa in crisi degli equilibri economici, e quindi sociali, determinata dal favorire l’accumulo di ricchezze da parte dei più forti.

Allora come superiamo il paradosso dell’aumento del consenso ricevuto dai partiti e movimenti di destra appoggiati in gran numero dalle classi meno abbienti? Qui entra in gioco un’altra caratteristica psicosociale dell’uomo, la sua difficoltà a maneggiare la complessità e di conseguenza ad essere facilmente manipolabile. Poi c’è la tendenza istintiva a sottomettersi al più forte ed evitarne il conflitto. Un’altra caratteristica dei fascisti e del loro agire in sottrazione di conoscenza è quella di proporre interpretazioni semplificate della realtà e delle soluzioni ai suoi problemi. Queste deduzioni prive di ogni fondamento sono però capaci di stimolare reazioni istintuali impetuose da parte delle masse. Ciò avviene con le finte guerre contro la droga o il terrorismo, con la persecuzione dei migranti e l’implementazione di sistemi di deportazione, con la costruzione di muri di confine e barriere di contenimento.

Quando una società è in crisi spesso arriva il “genio” di turno che trova la soluzione a tutti i mali attraverso la rigenerazione del mito dell’uomo forte, del capo assoluto capace di risolvere finalmente, con decisione e con virile vigore, tutti i problemi. Questo mito sempreverde della destra deriva dalla idealizzazione della figura del padre, spesso nella realtà compromessa. I dittatori, o aspiranti tali, di vario genere e i loro sostenitori, hanno spesso condiviso un rapporto deficitario con la figura paterna, che tentano di riabilitare attraverso deliri autoritaristici. Un’altra condizione che spinge verso l’accoglienza di proposte di politiche antidemocratiche è la poca voglia di prendersi responsabilità impegnative e conflittuali da parte dell’uomo, soprattutto in condizioni di stress sociale e di mancata soddisfazione dei bisogni principali. (Questo argomento è stato trattato molto efficacemente da Erich Fromm e vi rimando a lui per l’approfondimento.)

Ma tornando alle cause della caduta di attrazione delle proposte democratiche in favore di istanze fascistoidi, credo sia importante definire alcune caratteristiche delle problematiche sociali più impegnative che le nostre società vivono. Siamo soprattutto, come ogni essere vivente, istinto di conservazione. Quando viviamo una reale o immaginata minaccia al nostro esistere materiale entriamo in crisi. La realtà economica su cui fondiamo le nostre aspirazioni future e le sicurezze presenti è decisamente preoccupante. Basta dare un’occhiata ai dati sull’economia globale forniti dall’Oxfam per rendersi conto che questa continua sperequazione delle risorse a favore di pochi accaparratori rende gli orizzonti dei cittadini del sempre più vasto impero del capitalismo globale sempre più cupi. 

C’è la necessità strutturale del sistema economico, supportato in primis dagli Stati Uniti, e ormai globalizzato dalle corporazioni private e statali che lo gestiscono, di creare sempre più accumulo di risorse. Secondo il sociologo americano Peter Phillips il valore monetario della metà del  PIL mondiale è inferiore a quello gestito da appena 17 aggregati finanziari. Per generare sempre più profitto il capitalismo ha usato qualsiasi opportunità, anche la guerra e la riduzione in schiavitù di lavoratori e gente comune. Oggi assistiamo alla riedizione, ampliata e modernizzata, dell’economia di guerra nata dopo il secondo conflitto mondiale, che ora sponsorizza interventi militari per poter godere dei profitti generati dalla  distruzione e poi dalla ricostruzione. La NATO, che in molti casi si è dimostrata essere il braccio militare del capitalismo su guida americana, non ha avuto crisi di pudore nell’imporre agli scodinzolanti stati satelliti di aumentare le spese militari. Risorse queste che ovviamente vanno ad impinguare i portafogli delle imprese militari e dei loro mediatori, e che, altrettanto ovviamente, non sono disponibili per le esigenze della società civile. 

Ma i sudditi del capitalismo globalizzato devono temere non solo la rapina delle risorse ma anche una stretta alle libertà di espressione e limitazioni importanti al diritto di manifestare il dissenso. Come indica il rapporto di Amnesty International, si sta assistendo ad un incremento del controllo e della sorveglianza di massa attraverso soprattutto sistemi tecnologici e di raccolta generalizzata dei dati personali. Il potere economico ha necessità di inibire le opposizioni per poter continuare indisturbato a sottrarre risorse in nome di un delirante bisogno di accumulo compulsivo. Ma è importante capire che il sistema economico nel quale siamo immersi non è solo una ricetta per la produzione e la distribuzione di beni e profitti, ma è soprattutto un valore etico. L’essere umano ha necessità di attribuirsi un valore morale nel suo agire, e questo definisce il valore personale e sociale di ogni individuo. Si può ben capire a quali disastri  è destinato il genere umano quando sceglie di valorizzare il proprio sé con la capacità di accumulare sempre più risorse.

Qui i fascismi, truccati da democrazie, si offrono, come storicamente hanno sempre  fatto, per assumersi l’incarico di sorvegliare e proteggere gli interessi dei poteri economici divenendo i loro docili cani da guardia. Il potere economico, contrariamente  a quanto esprime pubblicamente, ha necessità di avvalersi, per non sporcarsi direttamente le mani, dei fascismi, per continuare a produrre proventi. E i fascismi hanno bisogno dei poteri forti, dedicandogli la loro assoluta sottomissione, per continuare ad elaborare il danno dell’autorevolezza paterna mancata, che genera in loro solo vano autoritarismo e sostanziale odio per la vita. Un’altra bandiera dei fascismi è il nazionalismo suprematista adibito a valore prioritario per l’identità di un popolo. Esso diventa stimolo per suscitare facile entusiasmo per l’appartenenza ad un gruppo “superiore”. Il meccanismo psicosociale è simile a quello della valorizzazione del sé mediante accumulo di risorse sopra descritto, qui utilizzando una presunta superiorità etnica.

Come per il tifo sportivo, che risolve senza sforzi il bisogno di partecipare ad un valore positivo del sé condividendo i fasti  della squadra del cuore. La dipendenza psicologica del tifoso è la causa della negazione, non di rado violenta, della sconfitta, che danneggia il precario narcisismo costruito intorno al sentimento di appartenenza, vissuto spesso proprio come una fede. Ed eccoci arrivati di nuovo al democrascismo, che per continuare ad avere una sua dignità concettuale, dovrebbe presentare anche un’altra caratteristica tipica dei regimi illiberali: il conformismo. E non necessita di essere dei finissimi osservatori delle dinamiche sociali per poter affermare con sicurezza che siamo immersi in una deriva conformistica quasi senza precedenti. A questo punto, dopo aver individuato la deviazione democratica verso un fascismo psicosociale carico di pulsione di morte, per combatterla è necessario fare uno sforzo d’interpretazione e comprensione al di là delle nostre sensazioni.

Abbiamo il difetto di fidarci troppo del nostro intuito, anche se sappiamo bene che se avessimo continuato a seguirlo imperterriti saremmo ancora convinti che la terra è piatta e che il sole ci gira intorno. Poi bisogna imparare a conoscere le nostre qualità e i nostri limiti, affrontando maturamente il dolore della ferita narcisistica della perdita dell’onnipotenza e dell’onniscienza. Siamo tutti vittime della propaganda, che riguardi una bibita o una interpretazione geopolitica. Quindi affidiamoci, per la comprensione complessa della realtà, a coloro che entrati nel nostro sistema di fiducia, ci propongono interpretazioni plausibili, dimostrabili e senza partecipare a interessi di parte. Credo sia necessario partire da un riesame delle nostre certezze e porre in essere l’obbiettivo di favorire con le nostre azioni lo sviluppo delle migliori capacità umane, come l’empatia, l’altruismo e l’amore per la vita, per un destino della nostra specie che sia meno cruento possibile e in armonia con il resto delle cose.   


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